Mario Ettore Bacci
di Alba Visconti - marzo 2012
Con Mario ci accomuna un lungo trascorso nel campo archeologico e da sempre siamo a conoscenza del nostro comune interesse per l’arte. Conosco e apprezzo il suo lavoro di ‘illustratore archeologico’, ma fino ad oggi non avevo avuto modo di conoscere a fondo i suoi lavori artistici. Pensarlo in questa ‘nuova’ veste, dopo aver visto i suoi lavori, mi ha portato a soffermarmi sul valore che comunemente si dà al termine ‘artista’.
Come sempre succede nella storia – oserei dire nella vita – tutto è in costante trasformazione: così succede nella lingua e, in questo caso, al termine ‘artista’. Per indicare le ‘arti’ nell’antica Grecia si usava la parola technè, che presupponeva l’essere maestri in un qualsiasi processo di produzione: la radice della nostra ‘tecnica’. Al latino ars, oltre alla traduzione letterale di ‘metodo pratico ’ o ‘tecnica’ , veniva attribuita la connotazione di bellezza. Nel medioevo la parola ‘artista’ avvicinava il suo significato ad artefice in quanto non esisteva ancora il termine artigiano. È nella metà del Quattrocento che L’Alberti pone importanza all’aspetto intellettuale dell’artefice rispetto alla manualità, a parlare di arti maggiori e arti minori, a dare un forte valore al ‘genio’. Questa concezione dell’artista continua a svilupparsi gradualmente fino alla fine dell’Ottocento, quando nasce la fotografia e il mondo dell’arte cambia completamente. Per gli artisti comincia veramente un momento nuovo, con un grande spirito di ricerca diffuso: c’è da reinventare tutto un mondo, perché è cominciato il tempo della riproducibilità tecnica. Gli interrogativi e le teorie sul ruolo dell’arte sono tanti. Con gli sconvolgimenti politico-sociali che si avranno nel Novecento – due guerre mondiali, la guerra fredda, l’era atomica – possiamo dire che l’umanità, in circa settant’anni, ha rivoluzionato dal profondo il suo modo di essere; quindi anche il rapporto con l’arte. Tra il 1950 e il 1960 si arriva a condensare il ruolo dell’esecuzione artistica e a esaltarne l’ideazione, il concetto, l’azione istintiva che muove il fare artistico.
Nell’epoca della riproducibilità tecnica, dove la globalizzazione del mercato pubblicitario uniforma e guida il senso estetico mondiale, si parla più comunemente di ‘operatori estetici’ - anche se molti di loro hanno pur sempre un ruolo intellettuale preponderante – nel senso che rispondono a esigenze di mercato o sono ‘guidati’ nel processo creativo da calcoli ben precisi, più statistici che matematici. Senza indignarsi, ma semplicemente considerandolo ‘altro’, si può arrivare a ridurre il processo creativo ad una pratica che non va oltre l’aspetto esteriore, svuotandolo del valore della ricerca della pura creatività propria del fare artistico, e per noi fruitori, del calore dell’emozione.
Altra cosa che mi ha richiamato alla mente il lavoro di Mario, con il suo mantenersi in equilibrio tra necessità e libertà, tra pulsioni passionali e coscienza razionale, è quella concezione, espressa nell’arte di tanti artisti, che sin dall’antichità greca subisce il fascino esistente tra le proporzioni della natura e le leggi matematiche ad essa intimamente correlate. Quella proporzione ideale per eccellenza e un canone geometrico fondamentale, che conosciamo come ‘sezione aurea’,si legano al concetto di un perfetto equilibrio estetico. Questo rapporto matematico è così intimamente insito nella natura, che quando un’artista si avvicina all’essenza della vita con pura creatività, aldilà del tipo di linguaggio usato, arriva naturalmente ad esternare un ideale di bellezza e armonia che affascina l’osservatore, in quanto la percezione umana dimostra una propensione naturale verso la perfezione cosmica. E l’osservazione di questi lavori darà sempre un appagante godimento estetico.
Ecco, quando Mario sente di aver raggiunto quell’equilibrio ricercato, inserisce delle scritte, dei segni, dei numeri come a suggellare il lavoro, come a dire che la parola scritta fa diventare storia i fatti successi prima; una scrittura rapida per fissare il momento. Per dire a se stesso che quell’atto è stato compiuto.
È un segno che diventa scrittura – non sono appunti di viaggio, annotazioni o una sorta di progetto scritto, tanto meno un titolo. Sono delle affermazioni che si avvalgono, preferibilmente, della negazione.
Il fare crea delle forme, che riportano a qualcosa di concreto, ma non essendo quel richiamo intenzionale, non essendo quelle forme predeterminate dal pensiero, Mario puntualizza che quello che vediamo ‘non è una cellula’, ‘non è un fiore’, ‘it isn’t an arm’.
In ogni caso, se pur partito dal dare libero sfogo all’inconscio, operando comincia a misurare i gesti, a compiere delle operazioni analitiche. Nell’esercizio del fare, l’atto istintivo diventa deliberato, non perde la razionalità e comincia a crearsi un concetto astratto, che per sintesi porta a qualcosa di concreto; quindi il risultato non è dato dal semplice fare, ma dal tipo di equilibrio che è riuscito a stabilire tra le varie componenti. Ma rimane pur sempre il fatto che quel che appare non sempre è. E lui sente il bisogno di dircelo. Per questo la forma che il colore ha assunto non può rimanere evanescente, anzi deve essere messa in evidenza dalla linea che, anche quando è tenue o appena accennata, ha la forza di un filo di acciaio per come tiene salda quella forma nello spazio.
E prima ancora che con il colore la forma viene plasmata con una materia duttile, filtrante, assorbente, a volte rifrangente, come la carta; sia velina, da pacchi, stampata o cartone ondulato, essa viene stesa, ritagliata, raggrinzita, strappata, bruciata. Prende vita o si annienta a seconda delle circostanze che incontra; copre o svela stesura o grumi di gesso. E anche quest’ultimo ha subito incisioni e modellature. È stato scavato, ricoperto o cancellato da stesure, colature e schizzi di colore.
Le macchie di colore, aldilà della materia che le compone, sono strutturate nello spazio con precisione ed equilibrio; sono riprese, richiamate con ritagli di giornali, ridisegnate e sottolineate più volte. Ma nonostante le sovrapposizione di più materie e l’interferenza reciproca, la relazione tra le parti lascia intravedere la tessitura della tela, del supporto. Un continuo mettere e levare che fa sì che niente vada perduto: come a dire che ogni cosa resta nella memoria, e che ogni singolo frammento di ricordo è parte della realtà e come tale prende posto nella tessitura dell’insieme; che crea la vita in continuo movimento e in costante trasformazione, dove il tutto ha un’importanza nel creare l’equilibrio, che a quel punto non è solo un equilibrio estetico, ma elemento fondante del tutto creato. Perciò tutto è misurato a creare il peso ottico che darà l’equilibrio compositivo.
A volte dei segni diventano grovigli - a matita o di colore - che possono sembrare piccoli esseri alati: Fate? Foglie? Nodi? Come quel nodo al fazzoletto per ricordarsi di ricordare. Matasse, forse, che si dipanano a raccontare ciò che la memoria, con perseveranza e caparbietà, ha tanto pazientemente districato dai nodi e raggomitolato nel filo logico consecutivo di un racconto che non necessariamente si conclude con un’opera. Talvolta il racconto continua a svolgersi con continuità da un’opera all’altra, rimanendo coerente pur nell’inconsapevolezza.
Queste stratificazione di cartoni e colori, sovrapposizioni di strati, scavo con le combustioni o altro, compongono uno spazio che non si ferma su due dimensioni, ma ambisce a raggiungere la terza. E questo diventa ancora più evidente negli ultimi lavori, non più su tela, ma su lamina metallica applicata su un telaio di legno. Questo nuovo materiale avvia una ricerca verso nuove dimensioni, per sperimentare una esperienza sonora e realizzare un coinvolgimento sensoriale totalizzante.
Su una di queste opere compare la scritta, questa volta affermativa, ‘The life sometimes is so hard’ (‘ La vita talvolta è così dura’). Quest’opera presenta caratteristiche di continuità accanto a elementi nuovi: permangono le stratificazioni materiche con trasparenze che svelano il supporto - si intravede, a ben guardare, l’ossidazione del metallo -, e l’aggiunta di carta sottile dalla quale emergono delle stropicciature - una sorta di negazione dell’effetto metallico -. Mentre i colori si sono fatti più intensi e coinvolgenti, più corposi: l’olio – parte integrante del pigmento pittorico - a tratti si è scisso, diventando esso stesso colore che cola; le velature danno un maggiore spazio all’acrilico, meno luminoso e vischioso dell’olio e più immediato nel fissare il pensiero; la scrittura, ora anche incisa, diventa anch’essa colore, non si ferma solo all’uso della matita. L’effetto della resa estetica è ancora fondamentale, come nell’opera con la scritta ‘Non è solo un frutto del vento’. Anche qui il richiamo all’effetto sonoro del vento. Qui in alcuni punti la lamina metallica è stata scarnita con acido a rendere la superficie screziata o, in altri punti, scartavetrata per lisciarla maggiormente; compare l’uso dei gessetti a cera. L’elemento protagonista centrale, dipinto ad olio con un rosso cadmio intenso e brillante su un fondo acrilico bianco che ne risalta l’intensità, viene sospeso, trattenuto da fili sottili che lo fanno librare nell’aria: se ne percepisce netto il movimento e il senso di dinamicità. L’aspetto sensoriale di queste ultime opere è diventato totalmente coinvolgente e avvolgente.
Un altro aspetto importante e rivelatore è il formato su cui lavora, un 90x90 cm: un quadrato perfetto. Anche il formato entra nella ricerca di un equilibrio estetico che serve a rivelare un discorso narrativo ritmico, una sorta di libro dove il quadrato dà il senso del racconto finito.
Nello studio sul significato dei simboli il quadrato rappresenta l’universo creato, terra e cielo, in opposizione al non creato: in questo spazio delle azioni hanno lasciato delle tracce. È l’antitesi del trascendente, l’immanente: in questo spazio si è realizzata un’esperienza. Il quadrato è la figura di base dello spazio, come il cerchio è quella del tempo. Nelle teorie platoniche il quattro si riferisce alla materializzazione delle idee, indica i fenomeni, la stabilità della materia.
Per Mario il quadrato è la base su cui si sviluppa, in forma ideale, il cubo, cioè lo spazio nelle sue tre dimensioni: l’equilibrio è racchiuso in questo spazio. Egli pensa al suo operare in maniera tridimensionale, si figura nello spazio ciò che rappresenta, e ce lo fa percepire chiaramente. Costruisce lo spazio utilizzando l’energia rivitalizzante del rosso di cadmio in basso, e a volte sui lati, completata da un coronamento dorato, o aggiungendo delle ombre a dare profondità.
Non mi stupirei, facendogli visita nel suo studio, un giorno, di trovare le forme che oggi vediamo delinearsi sui suoi quadri, volteggiare nell'aria appese a tanti fili impercettibili.
Come sempre succede nella storia – oserei dire nella vita – tutto è in costante trasformazione: così succede nella lingua e, in questo caso, al termine ‘artista’. Per indicare le ‘arti’ nell’antica Grecia si usava la parola technè, che presupponeva l’essere maestri in un qualsiasi processo di produzione: la radice della nostra ‘tecnica’. Al latino ars, oltre alla traduzione letterale di ‘metodo pratico ’ o ‘tecnica’ , veniva attribuita la connotazione di bellezza. Nel medioevo la parola ‘artista’ avvicinava il suo significato ad artefice in quanto non esisteva ancora il termine artigiano. È nella metà del Quattrocento che L’Alberti pone importanza all’aspetto intellettuale dell’artefice rispetto alla manualità, a parlare di arti maggiori e arti minori, a dare un forte valore al ‘genio’. Questa concezione dell’artista continua a svilupparsi gradualmente fino alla fine dell’Ottocento, quando nasce la fotografia e il mondo dell’arte cambia completamente. Per gli artisti comincia veramente un momento nuovo, con un grande spirito di ricerca diffuso: c’è da reinventare tutto un mondo, perché è cominciato il tempo della riproducibilità tecnica. Gli interrogativi e le teorie sul ruolo dell’arte sono tanti. Con gli sconvolgimenti politico-sociali che si avranno nel Novecento – due guerre mondiali, la guerra fredda, l’era atomica – possiamo dire che l’umanità, in circa settant’anni, ha rivoluzionato dal profondo il suo modo di essere; quindi anche il rapporto con l’arte. Tra il 1950 e il 1960 si arriva a condensare il ruolo dell’esecuzione artistica e a esaltarne l’ideazione, il concetto, l’azione istintiva che muove il fare artistico.
Nell’epoca della riproducibilità tecnica, dove la globalizzazione del mercato pubblicitario uniforma e guida il senso estetico mondiale, si parla più comunemente di ‘operatori estetici’ - anche se molti di loro hanno pur sempre un ruolo intellettuale preponderante – nel senso che rispondono a esigenze di mercato o sono ‘guidati’ nel processo creativo da calcoli ben precisi, più statistici che matematici. Senza indignarsi, ma semplicemente considerandolo ‘altro’, si può arrivare a ridurre il processo creativo ad una pratica che non va oltre l’aspetto esteriore, svuotandolo del valore della ricerca della pura creatività propria del fare artistico, e per noi fruitori, del calore dell’emozione.
Altra cosa che mi ha richiamato alla mente il lavoro di Mario, con il suo mantenersi in equilibrio tra necessità e libertà, tra pulsioni passionali e coscienza razionale, è quella concezione, espressa nell’arte di tanti artisti, che sin dall’antichità greca subisce il fascino esistente tra le proporzioni della natura e le leggi matematiche ad essa intimamente correlate. Quella proporzione ideale per eccellenza e un canone geometrico fondamentale, che conosciamo come ‘sezione aurea’,si legano al concetto di un perfetto equilibrio estetico. Questo rapporto matematico è così intimamente insito nella natura, che quando un’artista si avvicina all’essenza della vita con pura creatività, aldilà del tipo di linguaggio usato, arriva naturalmente ad esternare un ideale di bellezza e armonia che affascina l’osservatore, in quanto la percezione umana dimostra una propensione naturale verso la perfezione cosmica. E l’osservazione di questi lavori darà sempre un appagante godimento estetico.
Ecco, quando Mario sente di aver raggiunto quell’equilibrio ricercato, inserisce delle scritte, dei segni, dei numeri come a suggellare il lavoro, come a dire che la parola scritta fa diventare storia i fatti successi prima; una scrittura rapida per fissare il momento. Per dire a se stesso che quell’atto è stato compiuto.
È un segno che diventa scrittura – non sono appunti di viaggio, annotazioni o una sorta di progetto scritto, tanto meno un titolo. Sono delle affermazioni che si avvalgono, preferibilmente, della negazione.
Il fare crea delle forme, che riportano a qualcosa di concreto, ma non essendo quel richiamo intenzionale, non essendo quelle forme predeterminate dal pensiero, Mario puntualizza che quello che vediamo ‘non è una cellula’, ‘non è un fiore’, ‘it isn’t an arm’.
In ogni caso, se pur partito dal dare libero sfogo all’inconscio, operando comincia a misurare i gesti, a compiere delle operazioni analitiche. Nell’esercizio del fare, l’atto istintivo diventa deliberato, non perde la razionalità e comincia a crearsi un concetto astratto, che per sintesi porta a qualcosa di concreto; quindi il risultato non è dato dal semplice fare, ma dal tipo di equilibrio che è riuscito a stabilire tra le varie componenti. Ma rimane pur sempre il fatto che quel che appare non sempre è. E lui sente il bisogno di dircelo. Per questo la forma che il colore ha assunto non può rimanere evanescente, anzi deve essere messa in evidenza dalla linea che, anche quando è tenue o appena accennata, ha la forza di un filo di acciaio per come tiene salda quella forma nello spazio.
E prima ancora che con il colore la forma viene plasmata con una materia duttile, filtrante, assorbente, a volte rifrangente, come la carta; sia velina, da pacchi, stampata o cartone ondulato, essa viene stesa, ritagliata, raggrinzita, strappata, bruciata. Prende vita o si annienta a seconda delle circostanze che incontra; copre o svela stesura o grumi di gesso. E anche quest’ultimo ha subito incisioni e modellature. È stato scavato, ricoperto o cancellato da stesure, colature e schizzi di colore.
Le macchie di colore, aldilà della materia che le compone, sono strutturate nello spazio con precisione ed equilibrio; sono riprese, richiamate con ritagli di giornali, ridisegnate e sottolineate più volte. Ma nonostante le sovrapposizione di più materie e l’interferenza reciproca, la relazione tra le parti lascia intravedere la tessitura della tela, del supporto. Un continuo mettere e levare che fa sì che niente vada perduto: come a dire che ogni cosa resta nella memoria, e che ogni singolo frammento di ricordo è parte della realtà e come tale prende posto nella tessitura dell’insieme; che crea la vita in continuo movimento e in costante trasformazione, dove il tutto ha un’importanza nel creare l’equilibrio, che a quel punto non è solo un equilibrio estetico, ma elemento fondante del tutto creato. Perciò tutto è misurato a creare il peso ottico che darà l’equilibrio compositivo.
A volte dei segni diventano grovigli - a matita o di colore - che possono sembrare piccoli esseri alati: Fate? Foglie? Nodi? Come quel nodo al fazzoletto per ricordarsi di ricordare. Matasse, forse, che si dipanano a raccontare ciò che la memoria, con perseveranza e caparbietà, ha tanto pazientemente districato dai nodi e raggomitolato nel filo logico consecutivo di un racconto che non necessariamente si conclude con un’opera. Talvolta il racconto continua a svolgersi con continuità da un’opera all’altra, rimanendo coerente pur nell’inconsapevolezza.
Queste stratificazione di cartoni e colori, sovrapposizioni di strati, scavo con le combustioni o altro, compongono uno spazio che non si ferma su due dimensioni, ma ambisce a raggiungere la terza. E questo diventa ancora più evidente negli ultimi lavori, non più su tela, ma su lamina metallica applicata su un telaio di legno. Questo nuovo materiale avvia una ricerca verso nuove dimensioni, per sperimentare una esperienza sonora e realizzare un coinvolgimento sensoriale totalizzante.
Su una di queste opere compare la scritta, questa volta affermativa, ‘The life sometimes is so hard’ (‘ La vita talvolta è così dura’). Quest’opera presenta caratteristiche di continuità accanto a elementi nuovi: permangono le stratificazioni materiche con trasparenze che svelano il supporto - si intravede, a ben guardare, l’ossidazione del metallo -, e l’aggiunta di carta sottile dalla quale emergono delle stropicciature - una sorta di negazione dell’effetto metallico -. Mentre i colori si sono fatti più intensi e coinvolgenti, più corposi: l’olio – parte integrante del pigmento pittorico - a tratti si è scisso, diventando esso stesso colore che cola; le velature danno un maggiore spazio all’acrilico, meno luminoso e vischioso dell’olio e più immediato nel fissare il pensiero; la scrittura, ora anche incisa, diventa anch’essa colore, non si ferma solo all’uso della matita. L’effetto della resa estetica è ancora fondamentale, come nell’opera con la scritta ‘Non è solo un frutto del vento’. Anche qui il richiamo all’effetto sonoro del vento. Qui in alcuni punti la lamina metallica è stata scarnita con acido a rendere la superficie screziata o, in altri punti, scartavetrata per lisciarla maggiormente; compare l’uso dei gessetti a cera. L’elemento protagonista centrale, dipinto ad olio con un rosso cadmio intenso e brillante su un fondo acrilico bianco che ne risalta l’intensità, viene sospeso, trattenuto da fili sottili che lo fanno librare nell’aria: se ne percepisce netto il movimento e il senso di dinamicità. L’aspetto sensoriale di queste ultime opere è diventato totalmente coinvolgente e avvolgente.
Un altro aspetto importante e rivelatore è il formato su cui lavora, un 90x90 cm: un quadrato perfetto. Anche il formato entra nella ricerca di un equilibrio estetico che serve a rivelare un discorso narrativo ritmico, una sorta di libro dove il quadrato dà il senso del racconto finito.
Nello studio sul significato dei simboli il quadrato rappresenta l’universo creato, terra e cielo, in opposizione al non creato: in questo spazio delle azioni hanno lasciato delle tracce. È l’antitesi del trascendente, l’immanente: in questo spazio si è realizzata un’esperienza. Il quadrato è la figura di base dello spazio, come il cerchio è quella del tempo. Nelle teorie platoniche il quattro si riferisce alla materializzazione delle idee, indica i fenomeni, la stabilità della materia.
Per Mario il quadrato è la base su cui si sviluppa, in forma ideale, il cubo, cioè lo spazio nelle sue tre dimensioni: l’equilibrio è racchiuso in questo spazio. Egli pensa al suo operare in maniera tridimensionale, si figura nello spazio ciò che rappresenta, e ce lo fa percepire chiaramente. Costruisce lo spazio utilizzando l’energia rivitalizzante del rosso di cadmio in basso, e a volte sui lati, completata da un coronamento dorato, o aggiungendo delle ombre a dare profondità.
Non mi stupirei, facendogli visita nel suo studio, un giorno, di trovare le forme che oggi vediamo delinearsi sui suoi quadri, volteggiare nell'aria appese a tanti fili impercettibili.